Quando avevo tredici o quattordici anni, i miei genitori mi dissero di leggere tre libri. Il primo era Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino (in caso rischiassi di drogarmi); il secondo l’ho rimosso, quindi doveva essere qualcosa sul sesso (in caso rischiassi di rimanere incinta); il terzo era Il razzismo spiegato a mia figlia, di Tahar Ben Jelloun.
Il 16 febbraio, al Palazzo dei Congressi di Ravenna, Tahar Ben Jelloun è stato protagonista di un incontro per “Scritture di Frontiera”, iniziativa promossa da Scrittura Festival. L’autore è venuto per la prima volta a parlare di terrorismo in Italia, presentando il suo nuovo libro Il terrorismo spiegato ai nostri figli, edito da La Nave di Teseo. L’evento ha avuto anche la benedizione dell’Assessorato all’Immigrazione di Ravenna che l’ha promosso, nelle parole dell’assessore Valentina Morigi, per «restituire un senso alla parola “pace”».

Una foto di Tahar Ben Jelloun all’incontro (da Tessere d’Inchiostro)
Tahar Ben Jelloun è sicuramente uno scrittore, ma anche un giornalista e un sociologo di grande spessore. L’argomento dell’incontro è stato lo stesso del libro, ovvero spiegare, per quanto possibile, il terrorismo. Non solo: spiegarlo in termini abbastanza efficaci da farlo comprendere anche ai “nostri figli”. Allo stesso modo in cui, ormai più di dieci anni fa, a me e tanti altri ragazzini è stato spiegato il razzismo.
Sottolineo l’identità intellettuale di Jelloun perché quando rispondeva alle domande di Farian Sabahi, la docente e giornalista impegnata a dialogare con lui, argomentava e parlava in maniera semplice e ordinata. Ho poi scoperto che anche quest’ultimo libro, di struttura simile a quello che già avevo letto, riesce a trattare di un argomento ostico come il terrorismo in termini semplificati, certamente, ma anche comprensibili.
«Bisogna smetterla di trattare i jihadisti come fossero pazzi. Questo attenua la loro responsabilità e la gravità dei loro atti. Sono dei guerrieri. Attaccano l’Europa, il suo modo di vivere, la sua passione per la libertà e per la singolarità di ogni individuo.»
(Il terrorismo spiegato ai nostri figli, T. B. Jelloun)
Ciò che fanno innanzitutto i terroristi, è affidarsi ad una «lettura stravolta» dell’Islam. Un termine che Tahar Ben Jelloun ha usato molto è stato «caricatura». Proprio la scelta di questa parola contribuisce a dare un colore particolare al terribile fenomeno di cui si parla: uno storpiamento che porta drammi, morte e, per l’appunto, terrore. Un rifiuto irragionevole, quindi, di considerare il contesto storico in cui il Corano è stato scritto, con tutte le proprie incongruenze.
«C’è un versetto che dice, senza alcuna ambiguità: “Colui che uccide un innocente, uccide l’umanità intera” (sura 5, versetto 32). Quindi sono semplicemente degli assassini, né martiri, né musulmani.»
(Il terrorismo spiegato ai nostri figli, T. B. Jelloun)
Un tema caro a Jelloun, che da sempre si occupa di immigrazione, è quello dei giovani di seconda o terza generazione. Vale a dire quei ragazzi nati nei paesi in cui i propri genitori si sono trasferiti, con cittadinanza regolare, che tuttavia non si sentono francesi (per riferirci ai connazionali di Jelloun) né vengono ritenuti tali dalla popolazione meno tollerante. In questo clima di insoddisfazione, delusione e spesso di rabbia, rischiano di venire a contatto con la propaganda integralista che presenta loro una dimensione tutta nuova. Nello spirito di fratellanza che li illumina non conta più essere francesi, marocchini o algerini, conta soltanto essere musulmani.

La copertina del libro
Da qui parte una graduale radicalizzazione, smettono di tollerare l’Occidente, la libertà, lo stile di vita dei propri conterranei. Un percorso che culmina nel prepararsi all’azione terrorista, mettendola in pratica quando viene ricevuto l’ordine. Sono pronti, «non sanno che farsene della propria vita», sono convinti che quella davvero appagante li stia aspettando dopo la morte.
Il libro, nonostante tutto, riesce ad avere delle note positive. Non è indorato né alleggerito, poiché secondo l’autore i ragazzi hanno bisogno di sapere ciò che accade e sono in grado di metabolizzarlo. Non dobbiamo preoccuparci di scioccarli, perché hanno gli strumenti necessari a comprendere. Le domande, ancora una volta poste dalla figlia di Tahar Ben Jelloun, sono piuttosto dirette. Talvolta mirano all’approfondimento di una questione, oppure al significato di una parola ambigua. E’ proprio lei a chiedere che cosa si possa fare per arginare i danni e provare a risolvere la situazione. Secondo Jelloun, bisogna lavorare su quei ragazzi che rischiano di essere portati alla distruzione, coinvolgendo media, scuole e famiglie.
Inoltre la cura a tutto questo, e l’idea decisamente ci aggrada, è la cultura.